mercoledì 18 marzo 2020

Trump vuole comperare per un miliardo di $ il progetto tedesco per curare il coronavirus a patto di poterlo usare solo in America! E bravo Trump.o

Epatite C: cara "pastiglia"... ma quanto ci costi?

Fino a pochi anni fa l’unica terapia disponibile per l’epatite C era rappresentata dalla combinazione di vari farmaci, ad esempio ribavirina, con interferone. Visti i gravi effetti collaterali dell’interferone si è puntato su nuovi farmaci, più efficaci e meglio tollerati dai pazienti. Da gennaio 2014 nel mercato europeo sono comparsi farmaci ad “azione antivirale diretta” che non richiedono la co-somministrazione di interferone. Gli esempi principali e sui quali si è più dibattuto, almeno per quando riguarda lo scenario italiano, sono sofosbuvir (Sovaldi) e sofosbuvir combinato con ledipasvir (Harvoni), prodotti dall’azienda Pharmasset, ora acquisita da Gilead. Sono senza dubbio farmaci efficaci, in grado di curare i sintomi della malattia e di farlo in un tempo relativamente breve.

Che cosa è l’epatite C: è una malattia del fegato molto grave e ampiamente diffusa nel nostro Paese. È causata dal virus HCV e la trasmissione avviene per contatto diretto con il sangue di una persona malata. Esistono 6 varianti del virus HCV anche se in Italia il genotipo 1 sembra essere quello più diffuso. Nella maggior parte dei casi tende a cronicizzare, contrariamente alle altre forme di epatite (A, B e D), con un decorso medio che va dai 10 ai 20 anni. Il virus dell’epatite C determina una progressiva e generalizzata infiammazione al fegato che può portare, nel lungo periodo, a cirrosi e successivamente a tumore epatico. Ad aumentare la gravità di questa malattia è la frequente assenza di sintomi per cui molte persone sono ammalate senza saperlo ed è per questo che molto spesso la si definisce “malattia silenziosa”.

Come è noto, all’immissione in commercio di un farmaco precede una lunga fase di sperimentazione, di ricerca, di test e di procedure burocratiche per nulla semplici e veloci. L’azienda che raggiunge il mercato con il nuovo prodotto ha, tra gli obiettivi principali, quello di rientrare nei costi sostenuti nei precedenti 10-15 anni. Ma a spese di chi? Spesso anche nel nostro quotidiano, ci rendiamo conto di quanto sia alto il prezzo dei farmaci o in generale dei prodotti per la salute che acquistiamo. È opportuno chiedersi allora se quel prezzo sia giustificato da valide ragioni o se sia solo un’opportunità di guadagni sempre più alti per le aziende. Questa domanda se l’è posta AltroConsumo, la principale associazione italiana di consumatori, ma non solo; già nel 2015, da quando cioè il sofosbuvir è stato reso disponibile anche in Italia, i giornali riportavano l’attenzione sulla scalata vertiginosa del suo prezzo: “Sofosbuvir, ecco perché il farmaco anti Epatite C in Italia costa una fortuna” (La Stampa); “Quanto costa il tuo fegato? 60 mila euro” (Corriere della Sera); “Superfarmaci epatite C: abbattere i prezzi per guadagnarci tutti?” (il Sole24 ore).
Altroconsumo non si è limitato solo a porre il problema dell’eccessivo prezzo di questi farmaci; nei giorni scorsi ha infatti presentato la richiesta all’“Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato” per avviare un’indagine nei confronti di Gilead con lo scopo di verificare se il costo imposto al nostro SSN sia giustificato da altrettanti costi elevati di ricerca, sviluppo e produzione del farmaco o se l’azienda in questione stia solamente abusando della posizione dominante nella quale si trova essendo, per ora, l’unica a rifornire il mercato italiano. Le cifre di cui stiamo parlando, secondo il rapporto di Altroconsumo, si aggirano attorno agli 80 mila euro per un trattamento di dodici settimane. Prezzi analoghi sono stati dettati anche per Harvoni. Considerando l’entità della malattia e l’efficacia dei nuovi farmaci, i sistemi sanitari, non solo quello italiano, non potevano rifiutarsi di scendere a patti con l’azienda. Al primo accordo, Gilead e l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) avevano concordato, sia per Sovaldi sia per Harvoni, uno sconto crescente in base a determinati volumi di acquisto del farmaco. Con questo modello di scontistica “pay back” (“ritorno di pagamento”), il nostro SSN si è trovato in qualche modo vincolato a continuare l’acquisto anche dopo l’arrivo sul mercato di farmaci concorrenti e a minor costo. Considerato il proibitivo prezzo dei farmaci previsto dalla prima trattativa, il SSN si è visto costretto a trattare solo i pazienti più gravi, lasciando che quelli meno gravi peggiorassero o aspettando cure alternative. Se nel nostro Paese, e ancor di più negli USA, il prezzo è stato gonfiato di molto, in alcuni Paesi soprattutto in quelli a basso-medio reddito, i produttori di farmaci equivalenti hanno ottenuto i brevetti dalle aziende produttrici grazie al “licenziamento volontario” o a speciali agevolazioni. Questo è quello che è successo in India dove un intero ciclo di cura è disponibile a 200 euro. La forte differenza di costi e di accessibilità ai nuovi farmaci ha favorito i cosiddetti “viaggi della speranza” dei malati o i tentativi di farsi spedire la cura attraverso il mercato nero rischiando anche di incorrere in truffe.

Fino a che punto è giusto salvaguardare gli interessi dell’azienda produttrice o di chi vende il prodotto? L’accesso equo e globale alle cure non è forse un diritto universale e costituzionale che dovrebbe sempre essere garantito?
Questi sono in linea di massima alcuni degli interrogativi che il Comitato Nazionale di Bioetica si è posto nella mozione approvata il 23 febbraio scorso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e resa nota il 9 marzo. “È allora indispensabile individuare un prezzo adeguato dei farmaci rispetto ai costi sostenuti per la ricerca (tra l’altro spesso finanziata con denaro pubblico o acquisita da piccole industrie biotecnologiche) e per la commercializzazione.”; “[…] la tutela dell’iniziativa economica privata e quindi della proprietà industriale (brevetti ecc.) dovrà essere bilanciata con il diritto alla salute delle persone”; “[…] il Comitato sente il dovere di invitare le Istituzioni competenti del nostro Paese a elaborare ragionevoli scelte di politica sanitaria dirette ad una equa allocazione delle risorse e rendere disponibili, il prima possibile, i farmaci innovativi di provata efficacia per i pazienti affetti da patologie gravi, nel rispetto dei criteri clinici.”
Il Comitato Nazionale di Bioetica si mostra dunque fortemente preoccupato dalla salute dei moltissimi pazienti affetti da gravi patologie, epatite C ma non solo, per i quali non si è ancora liberato un posto per l’accesso alle cure. Il Prof. Salvatore Amato, co-redattore della mozione, continua analizzando le possibili cause di prezzi così elevati non solo di Sovaldi e Halvoni, anche se forse sono stati quelli a destare maggior scalpore, ma in generale di tutti i farmaci salvavita che rimangono un lusso per la stragrande maggioranza dei pazienti. Amato in merito afferma che: “Chi vende è perfettamente consapevole del fatto che il prezzo non dipende, come prevedono le regole del mercato, dalla capacità di spesa del paziente, ma dalla volontà dello Stato. Si costruisce un prezzo virtuale (nel senso che non corrisponde neppure lontanamente al costo di sviluppo, produzione e commercializzazione del farmaco), approfittando tanto del “ricatto” costituito dalla gravità delle patologie, quanto delle possibilità di spesa del sistema assistenziale.[…] Il prezzo “virtuale” nasce proprio dallo sfruttamento di una posizione dominante e dalla sicurezza di poter far leva su una capacità di spesa “fuori mercato”. Guadagna l’impresa: cifre neppure immaginabili. In qualche modo, risparmia lo Stato, se si considera il costo di un trapianto di fegato. È solo il cittadino a rimetterci […]”.

Qual è la situazione attuale? Tutte queste mobilitazioni hanno portato a risultati?
Ebbene si, qualcosa, anzi molto, nello scenario italiano sta cambiando proprio in questi giorni: “Epatite C, svolta sui superfarmaci: “Così cureremo 80mila pazienti l’anno”” (Repubblica, 9 marzo); “Contro l’epatite C nuovi farmaci a metà prezzo” (il Giornale, 10 marzo); “Epatite C: con i nuovi criteri AIFA le cure arriveranno per tutti” (La Stampa, 10 marzo).
Dopo giorni di accesi dibattiti, Mario Melazzini, direttore AIFA, ha infatti deciso di mettere i due prodotti – Sovaldi e Harvoni – in fascia C, cioè quella non rimborsabile, e di trattare con Gilead per un terzo farmaco, a breve sul mercato, in grado di trattare tutti i genotipi dell’infezione, non solo il genotipo 1 come quelli finora disponibili. Questa decisione è stata presa alla luce degli accordi presi in precedenza con altri produttori. L’allargamento dell’offerta e l’entrata in campo di aziende concorrenti hanno fatto scendere i prezzi a quote molto più accessibili. Si prevede infatti che d’ora in avanti il prezzo per un ciclo di terapia si aggirerà attorno ai 5 mila euro, un prezzo irrisorio se confrontato con quello di partenza. Melazzini, sostenuto anche dalla ministra alla Salute, afferma inoltre che: “Con questo piano di eradicazione andremo a trattare 240mila pazienti in tre anni, quindi tutti verranno presi a carico dai centri di riferimento.”. A questo proposito, l’8 marzo AIFA ha comunicato ufficialmente gli 11 nuovi criteri di trattamento che abbracciano praticamente tutti i malati, anche gli asintomatici. In termini numerici, i pazienti trattati passeranno da 65mila a 80mila all’anno anche grazie allo stanziamento di fondi pari a 1,5 miliardi di euro deciso alla fine dello scorso anno dalla stessa ministra Lorenzin.

In Italia stiamo quindi assistendo ad un importante passo avanti e ad una forte presa di posizione delle nostre Autorità nei confronti dei colossi dell’imprenditoria farmaceutica per la tutela della nostra salute. Questo non capita però in tutti i Paesi; negli USA infatti, dove il prezzo per questi farmaci è ancora più alto, sembra che si continui a ben tollerare questa disparità tra prezzo di vendita e reali costi sostenuti.
Entra in gioco dunque l’aspetto etico ed è compito anche del singolo cittadino-paziente, non solo delle Autorità, farsi carico del problema e far sentire la propria voce per rivendicare il proprio diritto alla salute.
Silvia Radrezza
IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri
Laboratorio di ricerca sul coinvolgimento dei cittadini in sanità
Dipartimento di Salute Pubblica

domenica 15 marzo 2020

Sarà interessante vedere come faranno "il passo indietro" Boris Johnson e il suo consigliere.



Per fortuna che la stupidità di alti dirigenti politici, in questi tempi viene immediatamente combattuta e azzerata dalla vera e giusta paura che sta vivendo il popolo mondiale!  Mi riferisco al genio primo ministro inglese Boris Johnson e al suo consigliere che vogliono vaccinare l'Inghilterra con due o tre milioni di morti! Vedremo tra non molto, quale originale formula useranno per fare il passo indietro. 

venerdì 13 marzo 2020

Abbiamo una classe politica semplicemente incapace!

Luxemburg Leaks

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Una delle decisioni fiscali trapelate firmati da Marius Kohl
Il Luxembourg Leaks, o LuxLeaks (da Luxembourg e dall'inglese leak, «perdita», nel significato di «fuga di notizie») è il titolo di un'inchiesta giornalistica condotta in cooperazione da 80 giornalisti, di 26 Paesi, che facevano riferimento al Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ). L'iniziativa si basava su informazioni riservate relative a una speciale normativa fiscale creata in Lussemburgo.

Rivelazioni[modifica | modifica wikitesto]

Grazie alla creazione di strutture finanziarie complesse e accordi segreti, approvati dal Tax office del Lussemburgo ai tempi in cui Jean-Claude Juncker era primo ministro, molti giganti aziendali hanno goduto di regimi fiscali agevolati facendo perdere, mediante l'esercizio di una massiccia elusione fiscale, miliardi di entrate tributarie ai governi nazionali dei singoli paesi in cui le multinazionali operavano in prevalenza.
Il risultato dell'inchiesta è stata la pubblicazione, nel novembre 2014, di 548 documenti sugli accordi segreti in materia di imposizione fiscale intercorsi tra le autorità del Granducato tra 343 aziende. Tali intese, sebbene probabilmente legali sul piano del diritto interno del Lussemburgo, potrebbero aver violato le norme comunitarie sulla concorrenza e gli aiuti di stato.
KPMG costruisce un nuovo edificio per uffici per 1.600 persone in Lussemburgo[1]
Le aziende coinvolte nel Luxembourg Leaks risultano provenire da 12 paesi e fra esse figurano i più grandi colossi mondiali[espressione vaga].
Le società, per risparmiare miliardi di tasse sui profitti, facevano transitare i capitali attraverso il Lussemburgo, pagando anche meno dell'uno per cento di imposte sui profitti depositati nelle banche del Granducato.
I documenti pubblicati dimostrano come fosse la PricewaterhouseCoopers (PwC), agenzia di consulenza fiscale tra le più grandi al mondo, ad accompagnare le aziende multinazionali nella elaborazione di strategie finanziarie finalizzate a ottenere regimi fiscali favorevoli in Lussemburgo dal 2002 al 2010.
Le LuxLeaks, che non fanno parte di WikiLeaks, hanno attirato l'attenzione e i commenti internazionali sui meccanismi che hanno consentito l'elusione fiscale in Lussemburgo e altrove.

Il Lussemburgo si sta attrezzando per succhiare ancora di più! Ma cosa aspettiamo a mandarlo via dall'U.E. Poi per forza che Salvini riuscirà confondere anche i normali!

Luxemburg Leaks

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Una delle decisioni fiscali trapelate firmati da Marius Kohl
Il Luxembourg Leaks, o LuxLeaks (da Luxembourg e dall'inglese leak, «perdita», nel significato di «fuga di notizie») è il titolo di un'inchiesta giornalistica condotta in cooperazione da 80 giornalisti, di 26 Paesi, che facevano riferimento al Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ). L'iniziativa si basava su informazioni riservate relative a una speciale normativa fiscale creata in Lussemburgo.

Rivelazioni[modifica | modifica wikitesto]

Grazie alla creazione di strutture finanziarie complesse e accordi segreti, approvati dal Tax office del Lussemburgo ai tempi in cui Jean-Claude Juncker era primo ministro, molti giganti aziendali hanno goduto di regimi fiscali agevolati facendo perdere, mediante l'esercizio di una massiccia elusione fiscale, miliardi di entrate tributarie ai governi nazionali dei singoli paesi in cui le multinazionali operavano in prevalenza.
Il risultato dell'inchiesta è stata la pubblicazione, nel novembre 2014, di 548 documenti sugli accordi segreti in materia di imposizione fiscale intercorsi tra le autorità del Granducato tra 343 aziende. Tali intese, sebbene probabilmente legali sul piano del diritto interno del Lussemburgo, potrebbero aver violato le norme comunitarie sulla concorrenza e gli aiuti di stato.
KPMG costruisce un nuovo edificio per uffici per 1.600 persone in Lussemburgo[1]
Le aziende coinvolte nel Luxembourg Leaks risultano provenire da 12 paesi e fra esse figurano i più grandi colossi mondiali[espressione vaga].
Le società, per risparmiare miliardi di tasse sui profitti, facevano transitare i capitali attraverso il Lussemburgo, pagando anche meno dell'uno per cento di imposte sui profitti depositati nelle banche del Granducato.
I documenti pubblicati dimostrano come fosse la PricewaterhouseCoopers (PwC), agenzia di consulenza fiscale tra le più grandi al mondo, ad accompagnare le aziende multinazionali nella elaborazione di strategie finanziarie finalizzate a ottenere regimi fiscali favorevoli in Lussemburgo dal 2002 al 2010.
Le LuxLeaks, che non fanno parte di WikiLeaks, hanno attirato l'attenzione e i commenti internazionali sui meccanismi che hanno consentito l'elusione fiscale in Lussemburgo e altrove.

L'insieme di tanti furbi e pochi onesti determinano dei grandi disastri!

La presenza disastrosa del coronavirus non può che farci riflettere sul ventennio trascorso della nostra  politica economica che ha permesso riduzioni continue nell'investimento pubblico su scuola e salute pubblica in particolare; per non parlare della volontaria incapacità di ridurre anche in parte la devastante evasione fiscale, affiancata ad una corruzione semplicemente non sentita da qualunque partito al governo! Per non parlare dell'E.U. alla quale è stato possibile, nella persona del suo Presidente Juncker, di capeggiare da anni un sistema che permette un saccheggio scandaloso alle casse degli Stati dell'Unione favorendo il suo paradiso fiscale del Lussemburgo e permettendo alle più grandi società mondiali ed europee di pagare meno dell'1% delle tasse che avrebbero dovuto pagare, nel nostro caso all'Europa. Questa cifra si aggira intorno ai 1000 miliardi di euro all'anno; con tale cifra anche un'Europa spendacciona avrebbe potuto affrontare il nuovo problema con più determinazione. Tra non molto, quando nei pronto soccorsi si presenteranno i vecchi, ed io sono fra quelli, sarà sicuramente giusto dare la precedenza ai giovani, ma la cosa che dà fastidio è che al sicuro ci saranno come sempre i furbi.

venerdì 6 marzo 2020

Cosa è LuxLeaks

Grazie alla creazione di strutture finanziarie complesse e accordi segreti, approvati dal Tax office del Lussemburgo ai tempi in cui Jean-Claude Juncker era primo ministro, molti giganti aziendali hanno goduto di regimi fiscali agevolati facendo perdere, mediante l'esercizio di una massiccia elusione fiscale, miliardi di entrate tributarie ai governi nazionali dei singoli paesi in cui le multinazionali operavano in prevalenza.
Il risultato dell'inchiesta è stata la pubblicazione, nel novembre 2014, di 548 documenti sugli accordi segreti in materia di imposizione fiscale intercorsi tra le autorità del Granducato tra 343 aziende. Tali intese, sebbene probabilmente legali sul piano del diritto interno del Lussemburgo, potrebbero aver violato le norme comunitarie sulla concorrenza e gli aiuti di stato.
KPMG costruisce un nuovo edificio per uffici per 1.600 persone in Lussemburgo[1]
Le aziende coinvolte nel Luxembourg Leaks risultano provenire da 12 paesi e fra esse figurano i più grandi colossi mondiali[espressione vaga].
Le società, per risparmiare miliardi di tasse sui profitti, facevano transitare i capitali attraverso il Lussemburgo, pagando anche meno dell'uno per cento di imposte sui profitti depositati nelle banche del Granducato.
I documenti pubblicati dimostrano come fosse la PricewaterhouseCoopers (PwC), agenzia di consulenza fiscale tra le più grandi al mondo, ad accompagnare le aziende multinazionali nella elaborazione di strategie finanziarie finalizzate a ottenere regimi fiscali favorevoli in Lussemburgo dal 2002 al 2010.
Le LuxLeaks, che non fanno parte di WikiLeaks, hanno attirato l'attenzione e i commenti internazionali sui meccanismi che hanno consentito l'elusione fiscale in Lussemburgo e altrove.