mercoledì 22 luglio 2009

Marinin a boxiarda (Un fatto realmente accaduto)

Cimitero monumentale di Staglieno, in Genova, galleria Inferiore a
Ponente, loculo numero 583 in terza fila; qui riposano le spoglie
mortali di suor Madre Teresa Solari, nata nel 1823 e deceduta nel
1908. Apparteneva alla Congregazione delle Domenicane e non si conosce
alcun evento preciso delle sua vita che l’abbia innalzata agli onori
delle cronache religiose, eppure sono molti i devoti che ancor oggi si
raccolgono in religioso silenzio davanti alla sua tomba. Il marmo è
contornato da una moltitudine di ex voto e di ceri elettrici accesi
che rendono il sito praticamente unico, per la misteriosa devozione
che rammenta quotidianamente.

Non si conoscono né la qualità né la quantità delle grazie che
questa suora ha elargito, ma a giudicare dall’abbondanza dei
ringraziamenti devono essere tantissime le persone beneficiate e che
le sono rimaste riconoscenti. Insomma, il suo intervento su molti
anonimi richiedenti pare sia stato graditissimo. Tutto ha avuto inizio
molti anni dopo la sua morte; la fama della “suorina ignota” è dovuta
al comportamento insolito di una persona che ho avuto l’opportunità di
conoscere quando ero poco più che un bambino, tra la fine degli anni
Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso.

A “santificare” suor Madre Teresa Solari è stata una certa
Marinin, detta “a boxiarda”. Quando io l’ho conosciuta aveva
settant’anni, ne dimostrava ottanta ed era contenta se la gente
credeva ne avesse novanta, anzi, faceva di tutto per lasciarglielo
credere, a rispetto del soprannome che qualcuno, più lungimirante di
me, le aveva affibbiato.

Era una vecchietta minuta, dimessa e solo apparentemente
dolcissima. Parlava un dialetto fiero, costituito da pochi vocaboli e
da tutti gli accenti adatti a permetterle di raggiungere una gradevole
armonia dialettica.

Doveva essere stata impressionata dalla figura di suo padre,
perché concludeva tutti i suoi discorsi con frasi del tipo «come
diceva mio papà», senza mai aggiungere la consueta aggettivazione di
“buonanima”, perché guardava sempre verso l' alto come se l' anima di
suo papà, o il suo stesso viso, non potessero essere semplicemente in
paradiso ma per giunta proprio lì, sopra di lei, o comunque da quelle
parti.

Ero un ragazzino e mi trovavo a transitare lungo il viale del
cimitero di Staglieno che collega la cappella delle accoglienze con la
costruzione del crematorio. Questo viale è fiancheggiato dai più
grandi campi comunali e dai più bei porticati del cimitero, interrotto
solo all' inizio dalla grande statua della Fede. Ricordo che,
vedendola per la prima volta, associai l’immagine della Marinin a
quella della celebre statua della “vecchietta delle noccioline”,
popolare e misterioso richiamo mitico alla Genova di un tempo. La
signora Marinin aveva una forte somiglianza a quella statua, tanto
da sembrare che fosse appena scesa dal piedistallo di marmo. O forse
quando si è poco più che bambini, tutte le vecchiette assumono per noi
quell’aspetto standard.

Mentre vedevo, forse per la prima volta, questa sua somiglianza
notavo che stava farfugliando qualcosa e immaginai che potesse avere
bisogno. Allora chiesi in modo garbato se parlava con me. Rispose
alzando la voce ma senza guardarmi direttamente, come se parlasse con
chi la volesse ascoltare e non necessariamente con me. Tra le cose che
disse ne afferrai solo alcune, slegate, inframmezzate ad altre
incomprensibili.

«Diva ... che queste piante che fan umbra ai partigen…» e
indicava, ruotando gli occhi a tutto campo e gesticolando brevemente,
i lettini di marmo dei partigiani, lungo il viale, «…sun stêti missi
da me papà».

Così disse, ma non avevo capito nulla e più mi interessavo
al discorso più lei arrotolava le parole. Chiesi scusa e la pregai di
ripetere. Sempre senza guardarmi, la vecchia, con evidente fastidio,
adoperò una specie di italiano letteralmente tradotto dal genovese e
sentenziò, a voce più alta:

«Questi alberi sono stati tutte piantati dal mio papà, mi
ricordo come fosse ieri, ero una bambina da niente che gli portavo da
mangiare mentre faceva dei buchi enormi per metterci le piante.»

«Signora, ma quando lei era piccola anche le piante saranno
state più piccole e quindi i buchi adeguati», dissi ingenuamente ma
anche disposto a credere ad un’altra versione purché mi venisse
spiegata. Non immaginavo che, con quelle mie parole, avrei scatenato
la sua senile collera.

«Sei cose sei viatri zoeni... sei de merde... perché quande
parla un vegiu nu u ste a senti’.» Rimasi scosso. La tenerezza che
quella vecchina mi aveva suscotato fino ad un attimo prima si era
dissolta all’istante. Inoltre stava crollando un mio valore
consolidato: il rispetto per i vecchi. In un lampo pensai che al
rispetto per i vecchi ci potessero essere delle eccezioni. Insomma,
la mal celata cattiveria della Marinin nei confronti di un ragazzo che
la aveva contraddetta su una cosa da nulla, e per giunta in modo del
tutto garbato, era imbarazzante.

Da quel giorno incominciai ad osservarla da lontano cercando di
non essere visto da lei, operazione piuttosto facile in quanto la
Marinin vedeva molto poco e solo da vicino. Più volte, passando per il
viale del cimitero, ebbi modo di notare che metteva in atto la stessa
tecnica usata con me per catturare l’attenzione dei passanti, benché
mi sfuggisse ancora il motivo di quei ripetuti tentativi di attaccare
bottone con qualcuno. Si avvicinava ad una persona, evitava di
guardarla in faccia e simulava di non averne notato la presenza;
farfugliava qualcosa, sempre la stessa, e poi con gli occhietti che
ormai si erano specializzati nel percepire se la sagoma era
interessata e quindi agguantabile, diceva le stesse identiche cose che
le avevo sentito dire io la prima volta: le tombe dei partigiani, le
piante, i buchi, suo padre… Dato che era una figura esile tutti la
lasciavano parlare e nessuno la contraddiceva. Marinin se ne
rimaneva calma e buona per un po’, poi concludeva che, con l'aver
piantato tutti quegli alberi, suo padre era morto in miseria.

«Avei louou tutta na vitta…», miagolava straziante, con vocine
esile. Insomma, al padre, e di rimando a lei, non era rimasto neppure
un soldo per mettere su la pignatta. Di conseguenza tutti - o quasi, e
non posso sapere in che misura – coloro che venivano agganciati da
quel panegirico, mettevano mano al portafogli e rifornivano la signora
Marinin di soldi.Ecco dove voleva arrivare. La mia domanda dell’altra
volta sui buchi l’aveva mandata in bestia perché avevo divagato dal
suo intento, e soprattutto perché aveva capito che da un ragazzino non
avrebbe ottenuto ciò che cercava.

Una mattina Marinin, diretta verso il cimitero per il suo
consueto giro d’affari, passava, appoggiandosi al bastone, davanti al
negozio di fiori di mio zio. Sbucai da sotto la tettoia per
avvicinarla e dissi:

«Buon giorno signora Marinin, come va?» La risposta, secca e
inaspettata, fu un’altra domanda, ben più perentoria ma anche assurda:
«Di chi tei figgiu ti?»

«Di mio padre», risposi, questa volta con un pizzico di malizia
nell’intento

«Vegni in pitin ciu vixin» disse lei curva sul bastone, con la
solita vocina strappacuore. Mi avvicinai e lei: «Ancun in pitin, pe
piaxei…» Sì, ammetto di essere stato ingenuo; d’altronde non si
diventa vecchi per niente. Mi avvicinai quanto le garbava, non
sospettando quello che stava per fare e che ancora una volta mi
avrebbe spiazzato. Quando fui proprio molto vicino mi diede uno
schiaffo così secco e veloce che non pareva potesse essere il suo. Era
lo schiaffo di una persona agile, giovane e vigorosa. Un attimo prima
di essere colpito ebbi la percezione che stesse dicendo qualcosa del
tipo: «Tou daggu perché ti tou meriti, cusci ti impari».

Risposi in modo agitato e piangendo, con il tono di voce di chi
insulta ma nella maniera in cui può insultare solo un ragazzino bene
educato e ingenuo: «Cosa imparo? E perché melo merito?» In quelle mie
parole non c’era tanto la ribellione allo schiaffo ma a quella sua
pazzesca motivazione. Non tolleravo l’idea di avere qualcosa da
imparare da lei, né avevo intenzione di accettare che gli schiaffi si
meritino per non aver fatto nulla di male. Ma curva, barcollando,
quella vecchia non si curò di me o dei miei pensieri, ed entrò nel
cimitero, per la messa in scena di sempre.

Una volta la Marinin scivolò all’ingresso della prima galleria
sulla destra, ruzzolando in terra come un sacco. Molti credettero si
fosse fatta male ad una gamba, invece niente. Illesa. La vecchia
sostenne a gran voce, per farsi sentire da tutti i presenti, che non
si era fatta nulla perché, prima di cadere, aveva guardato la
fotografia sulla tomba della suora e che questa le aveva sorriso. Suor
Madre Teresa Solari.

Fu per lei probabilmente un’illuminazione insperata, un lampo
che attraversò la perfidia della sua mente con la rapidità delle
intuizioni geniali degli scienziati, quanto dei ciarlatani, di rango.
Da quel momento Marinin abbandonò la tattica delle piante, dei buchi e
del padre lavoratore – che evidentemente non macinava più – e assunse
quella della suora miracolosa. Cambiò anche zona cimiteriale,
spostandosi dal vialone di tombe a lettino di marmo, all’aperto, alla
galleria dei loculi dove si trovava la suora sconosciuta. La cosa
funzionò a dovere, e non solo logisticamente, perché garantì un
notevole scatto di carriera all’anziana furbastra che, da mendicante
esperta ma normale, si autonominò promotrice di intercessioni
religiose. Un bel salto, non c’è che dire!

Marinin, ormai spostata l’attività davanti al colombaio della
suora, a tutti raccontava che era stata miracolata, che a volte vedeva
delle macchie di sangue sulla lastra di marmo, che però appena lei
incomincia a pregare piano piano si dissolvevano. E a che si mostrava
educatamente scettico, Marinin con un santo candore diceva: «E perché
duviei cuntave na boxia?» Il perché, a dire il vero, era lampante:
Marinin si proponeva di intercedere direttamente conto terzi, mediante
sue preghiere, naturalmente solo se aiutata un poco, con qualche
soldino.

E la gente? Beh, si sa com’è la gente! Molti spiegavano i
problemi che avevano a Marin: il marito ammalato, il figlio senza
lavoro, la figlia che non riesce a rimanere incinta… ma Marinin
ascoltava appena, capiva poco, perché col tempo era diventata ancora
più sorda. Qualunque cosa le si dicesse lei era solita ripetere
meccanicamente, con aria da mestierante navigata:

«Ghe parlu mi a ‘a munega. Niatre se capimmu. Fieve, che l’é megiu.»
Marin è morta con poca partecipazione da parte di tutti i suoi
paesani perché era conosciuta dalla gente di Staglieno come una
vecchia dalla bontà, diciamo così, “controllata”. Invece molto
dispiacere ne ebbero le tante persone che avevano affidato a lei i
propri problemi.

Ha lasciato una tradizione che è sempre più sentita: la
devozione alla “Suorina”, così la chiamano i devoti che accendono ceri
e depongono ex voto in quantità notevole, sperando in una sua
intercessione positiva, che peraltro a qualcuno deve essere pure
arrivata, visto l’inusuale fervore devozionale. E chissà che tanto non
abbia fatto anche la sapiente intermediazione della scaltra e bugiarda
Marinin che, dribblando qualunque gerarchia religiosa, si adoperò,
anche se in modo non esattamente disinteressato, alla santificazione
della suorina

domenica 5 luglio 2009

Le palle sui bonsai.

Ho letto sul secolo di giovedì 14 maggio che
illustra la indiscutibile bellezza che avrà il museo del bonsai con
vista sol mediterraneo, ci saranno duecento esemplari, alcuni anche
millenari, tutti comunque con i loro bravi 500 anni di età.
Dovremmo imparare a non ingigantire cose che non servono, ma che
rendono meno serio questo stupendo museo di bonsai sul tetto del
terminal traghetti, e molto avvilente il rapporto della notizia falsa
per compiacere forse chi la scrive e il destinatario della notizia
(non vera ) stessa.
Una pianta di 1000 anni ha una vita impressionante, se la si confronta
con gli accadimenti storici verificatesi durante la sua sia pur
vegetativa esistenza. Ad esempio i passaggi di proprietà non sono
possibili neppure per terreni o costruzioni quando si prendono in
considerazione, anche pochi secoli. Inoltre il bonsai ha bisogno di
una manutenzione altamente professionale, la doppia potatura di rami e
radici, la concimazione più che calibrata, e questo mantenerlo per un
numero considerevole di secoli è abbastanza improbabile.
Quando salivano sul patibolo Savonarola e Giordano Bruno, parte dei
bonsai del terminal traghetti, avevano già 500 anni, altri iniziavano
la loro esistenza per averne 500 oggi per il nostro bellissimo porto.
Diciamo semplicemente che i bonsai sono piante stupende, e che a volte
sulla loro età si esagera. Ci vorrebbe un tasto su tutti gli scritti
destinati al pubblico che cliccandolo elimina la falsità o la semplice
bugia come quando cliccando sul computer (il tasto controlla errori)
questo elimina le balle che in quanto tali non servono e
rincitrulliscono. Questo detto da un ex fioraio.

venerdì 3 luglio 2009

La dignità del fallimento

E' inutile, prima o poi si arriverà alla attuazione del principio che i comportamenti corretti lo sono per tutti: Governo e opposizione, e chi non si atterrà a questi comportamenti dovrà andare a casa e lasciare il posto a chi con questi comportamenti non si è compromesso. Così dovrà andare a casa chi non potrà spiegare con logiche umane cosa intendeva nel non considerare perseguibile penalmente il falso in bilancio. Cosi' dovrà andare a casa chi per un pelo non fa passare la legge salva Tanzi, secondo la quale nessuno può essere messo in carcere se non è dichiarato fallito, pur avendo con i suoi comportamenti disinvolti rovinato una enormità di risparmiatori. Altra distanza siderale nei confronti della loro sempre sbandierata amica America, la quale permise a un suo presidente (Truman) di pagare i debiti del suo fallimento con lo stipendio della casa bianca. Perché il fallimento è concepibile nel mondo degli affari, se non si è truffaldini, e non si vuole creare danni a terzi e ricchezza per il fallito. Ci sono fallimenti pilotati da disgustosi professionisti che hanno gratuitamente rovinato il fallito, perché alla fine della procedura tutti i creditori sono stati soddisfatti al 100%. Noto è il fallimento di una importante famiglia di armatori genovesi. Siamo in un periodo molto buio, e sicuramente non può continuare, e a volte la confusione è tanta.