domenica 25 aprile 2010

La minzione.

LA MINZIONE
(racconto di Marco Grasso)
Son quasi trent' anni che ho lasciato la mia matura giovinezza, e da quel lontano ricordo affiorano ora, talvolta, tutte le più impellenti esigenze. In particolare quelle a cui, all’epoca, non facevo caso più di tanto e che solo adesso, al ricordo, mi stupiscono per come riuscissero ad essere soddisfatte da me con una noncuranza sfacciata. Sto parlando della fame, della sete, della voglia di perdere tempo, del desiderio di incontrare amici, amiche… tutto veniva da me fatto con la stessa voracità e, ciò che più pesa oggi, con la stessa naturalezza. Come non potesse mai essere messa in discussione la riuscita di ciascun movimento, la facilità con cui mi procuravo le cose, la condivisione di tutto con gli amici.
Ogni cosa accadeva, si manifestava, si verificava secondo le mie previsioni sotto la spinta di quel, come definirlo… prurito che quando lo avverto oggi, nell’aria, emanato dai miei figli, devo essere sincero, mi dà fastidio. Intendiamoci, sono felicissimo che loro lo abbiano, mai e poi mai vorrei che qualcuno o qualcosa glielo portassero via, ma non sopporto l’idea di non averlo più io.
A voler essere precisi, tra le tante sensazioni, voglie, smanie che mi coglievano quotidianamente accavallandosi l’una all’altra fino al loro soddisfacimento… ne mancava una che, purtroppo, adesso avverto con fastidiosa regolarità, con insopprimibile impellenza: è la voglia di andare a mingere. Sì, la necessità di fare pipì è l’unica che, ancora oggi, riesce a mettermi una premura ansiosa, con l’aggravante del mio convincimento incoscio che, in caso di non ottemperanza, verrò inevitabimente castigato, da qualcuno, da qualcosa, dalla sorte, chissà. Certo, è irrazionale come timore, ma provare una voglia senza prurito, una necessità priva di brivido, il panico di un eventuale fallimento senza desiderio, sono tutte cose che mi allontanano dalle mie giovanili sicurezze.
E pensare che all’epoca stavo anche una giornata intera senza nemmeno pensare alla minzione; bastava bere poco, per quel giorno, o sudare un po’ più del solito, o vivere ad un giusto livello di umidità dell’aria per dimenticarsi del tutto di dover aprire ogni tanto la patta dei pantaloni.
Insomma, oggi vivo nel terrore di non arrivare in tempo, di farmela addosso. D’altronde i vecchi e sani vespasiani, che una volta consideravamo nauseabondi, non ci sono più. E pensare che erano sempre più puliti delle rarissime latrine che si possono, con grande fatica, reperire attualmente. Sono quelle a pagamento, scatole cubiche, di cemento, plastica e metallo mescolati insieme, mica i vecchi pisciatoi bifronte con le tettoiette a sbalzo e le grate di cortesia in ferro battuto, con motivi floreali. Oggi quelle scatole cubiche sono di un’efficianza tanto straordinaria che, nove volte su dieci non si aprono perché sono guaste e la decima… ci rimani chiuso dentro per interminabili minuti prima di riuscire, tra il panico claustrofibico che ti assale, a trovare la combinazione giusta per riconquistare la libertà oltre una porta a chiusura automatica che nessun essere umano sarebbe in grado di forzare. (Forse sono a prova di maniaco, diminuiscono le probabilità di essere assalito da qualche forsennato che decide di inchiappettarti a tradimento mentre hai i pantaloni slacciati o abbassati e sei maggiormente vulnerabile nelle parti intime… ma aumentano esponenzialmente le probabilità di finire i tuoi giorni dimenticato da tutti, in una scatola a tenuta stagna, insonorizzata perfettamente e separata dal resto del mondo.)Io vi ho messo piede solo due volte e ci sono rimasto chiuso due volte, cioè sempre; ergo, se posso li evito.
A questo punto rimangono i bar con tre diverse varianti. La prima è quella dei bar di cui sei cliente, e nei quali il cartello posto da anni sulla porta del bagno, con su scritto NON FUNZIONA, per te non vale, ma in genere si tratta al massimo di due o tre esercizi, in genere concentrati tutti nella stessa zona, ovvero quella intorno all’isolato dove abiti o dove hai lavorato in passato.
Poi c’è l’opzione dei bar dei quali non sei cliente, e in cui il cartello NON FUNZIONA vale anche per te. Sai che in questi bar il proprietario basa un aspetto fondamentale della propria posizione filosofica ed ideologica rispetto al mondo, sul profondo concetto seguente: «Hanno mica preso il mio locale per un pisciatoio!?» e sai che, in qualche modo, ha le sue ragioni, benché a nessuno venga in mente di pisciare in un angolo ma la richiesta sia molto più di buon senso, ovvero approfittare della ritirata appositamente concepita, tra l’altro per legge, trattandosi di un locale pubblico e non del salotto di casa del gestore. Tuttavia se lì hai appena preso un caffè di cui non avvertivi il minimo bisogno, solo per la grazia di poter usare il bagno, sai che dovrai prenderne al più presto un altro, di cui avrai ancor meno bisogno, in un diverso locale, sperando che questa volta vada meglio. (So di anziani che non hanno risolto i loro problemi di prostata ma in compenso sono molto preoccupati dall’ulcera peptica, dalle complicanze al duodeno e dai guasti al sistema nervoso. L’unica soddisfazione sarebbe, in tempi di revisionismo storico, una bella campagna di riabilitazione della pisciata nei pantaloni come gesto rivoluzionario e catartico, da salutare ovunque, e da parte di tutti, con solidale allegria. Ma l’umanità non è ancora pronta per questo salto qualitativo del senso civico. Vedremo in futuro, all’occorrenza).
Infine la terza ipotesi di bar in cui si può imbattere, quando la vescica reclama una soddisfazione poco eroica ma molto inderogabile, è quella il cui gestore custodisce gelosamente la chiave del bagno… direttamente nella cassa, in mezzo ai tagli grossi, così da poterla meglio monitorare. Costui, quando il malcapitato bisognoso di liberarsi dal gravame liquido chiede di poter accedere al bagno, afferra la chiave con gesto lento e plastico, rotea il braccio in maniera plateale e vistosa come a voler avvertire tutti gli astanti della sua magnanimità e dell’insopportabile richiesta che gli è appena stata fatta, infine inizia a “locciare” la chiave, tenendola tra due dita dalla targheta di plastica con su scritto, in grande e a pennarello, WC. La parte della chiave propriamente detta, ovvero quella ferrosa, con la capocchietta piatta e circolare e il suo prolungamento liscio sopra e zigrinato sotto, prende ad ondeggiare in modo vigoroso e scomposto, magari tintinnando se è accoppiata ad una consorella di qualche ripostiglio e facendo voltare verso il bancone anche quei pochi che fino a quel momento non si erano accorti della scena. E il locciamento avviene davanti agli occhi di chi ha fatto la richiesta, accompagnato da uno sguardo del barista che, nei casi più fortunati, sta a significare: «Questa è la chiave. Non gliel’ho ancora data, quindi mi stia bene a sentire, se la vuole veramente: si ricordi di chiudere la porta e di restituirmela». Nei casi meno fortunati il barista dirà, con voce chiara come non mai: «Dopo me la restituisce, vero?» e mentre il malcapitato si allontana verso il bagno, a capo chino, aggiungerà, a voce più bassa ma ugualmente percepibile in tutto il locale: «Non sarebbe nemmeno il primo che se la porta a casa dopo aver chiuso il bagno!» Tutti i presenti sembrano non vedere e non sentire, però avverti che vedono e sentono.
E tra questi presenti che vedono e sentono ci sono stato molte volte anch’io, tanti anni fa. Ricordo che si frequentava il bar Cucciolo e si buttava via il tempo in discussioni, in partite a carte e nel continuo tentativo di “rovinare” qualcuno, ovvero metterlo in condizioni psicologiche imbarazzanti, giusto per farsi qualche feroce risata alle sue spalle. Questo qualcuno era spesso uno sconosciuto che entrava nel bar manifestando con evidenza, per sua sfortuna palese, un certo veloce bisogno del bagno. Non ricordo se si trattava di uomini quasi anziani, solo un po’ anziani o anziani del tutto; a quell’età per noi era sufficiente avere qualche anno più dei nostri per considerare, senza alcun distinguo, tutti vecchi. E schifosi, ributtanti piscioni.
Nel caso in cui costui trascurasse il piccolo particolare di lasciare intendere al barista che dopo avrebbe consumato, partiva ineluttabile la “rovina” a cui si partecipava tutti, benché in silenzio, con gli sguardi, i sospiri, i sorrisi sotto i baffi. Il vecchio Rinaldo, il barista, che evidentemente non annoverava nella sua scala di valori la necessità di fare bella figura o di essere accogliente con i nuovi potenziali clienti, inizialmente si fingeva intento a fare dell’altro e non guardava il personaggio che cercava disperatamente di attrarre la sua attenzione, tenendosi a metà strada tra il bancone, dove non aveva intenzione di chiedere alcuna consumazione, e la strada verso il retro che nascondeva senza dubbio, nel suo pensiero, un bel bagno dove poter pisciare in santa pace. L’uomo tentava un gesto, al centro del bar, guardando in direzione di Rinaldo, e Rinaldo si chinava a prendere qualcosa, apriva e chiudeva sportelli, scompariva dietro la macchina del caffè, dava colpi di straccio anche nei punti dove di solito non gli veniva neppure in mente di mettersi a pulire, stava spesso girato verso le bottiglie come se fosse stato colto dall’improvvisa urgenza di contarle, una volta per tutte. Quasi gliene mancasse una all’appello.
In quei momenti nel bar calava un progressivo silenzio; tutti smettevano di parlare, come un sol uomo: andava in onda l'imbarazzo di questo sfortunato signore, e noi, chi roteava la testa, chi si guardava le scarpe, chi fingeva di scorrere i titoli di un giornale che non avrebbe mai letto, nemmeno dietro pagamento, per tutta la giornata.
Allora l’anziano sconosciuto, schiarendosi la voce, provava con tono affannato e impacciato a dire: «Scusi?» ma Rinaldo non sentiva. Quante erano quelle bottiglie? Ce n’era una là, lo ricordo. E l’altro, di nuovo, un po’ più forte: «Scusi?» Allora Rinaldo si voltava come chi ha sentito una voce provenire da qualche parte, ma lo faceva in direzione di qualcuno di quelli seduti ai tavolini, cioè dalla parte opposta a quella da cui era realmente giunta la voce. «Sì, dica?» chiedeva a voce alta ad uno dei quelli seduti, il quale, con gesto lento e serafico, alzava un braccio e, con l’indice della mano ben dritto indicava per lunghissimi secondi il tale che si era appellato a Rinaldo e che si trovava, indifeso e sperduto, in piedi, al centro del bar, esposto al silente, quanto ferinamente pubblico, ludibrio. C’era qualcosa di volutamente accusatorio, in quel gesto; l’anziano ora sembrava rimpicciolirsi, come volesse affondare la testa nelle spalle e lasciarvela scomparire dentro. Tuttavia, a voce sempre più impastata e confusa, riusciva a proferire: «Il bagno?» e Rinaldo, pronto: «Mi spiace proprio tanto ma devono venirlo a riparare in giornata. Si è staccata dalla catenella la manopola dello sciacquone ed è caduta nel buco, otturandolo. Siccome è una manopola piuttosto grossa, e siccome si è messa di traverso all’interno del tubo…» e lì attaccava una solfa senza fine, spiegando nei dettagli l’accaduto all’uomo che visibilmente manifestava una certa fretta di uscire alla ricerca di un altro bar e non capiva come fare per liberarsi dalle meticolose illustrazioni del guasto di un Rinaldo, per l’occasione, insolitamente ciarliero ed oratorio, perchè godeva nel creare disagio a chiunque, mettendo la ciliegina dello spergiuro se qualcuno avesse fatto notare a lui che era uno stronzo, era pronto a giurare su tutta la famiglia, in particolare sulla testa del " su figliolo" che lui non pensava minimamente a creare difficolta e che comunque, se lo andassero a prendere in culo, e nel mio bagno ci va chi dico io. Il desiderio di fare bella figura non albergava nel cuore del vecchi Rinaldo. Si era capaci anche di questo.
Ora ci sono io al posto di quel signore con tutta quella premura che ci faceva divertire, e che Rinaldo godeva nel trattenerlo. L'imbarazzo di quel signore era superficiale il mio è più sofferente più interiore; io infatti ho la sfortuna di essere sicuro di sentire quello che il barista sta pensando, quello che tutti i presenti stanno pensando, e la consapevolezza di averlo pensato anch' io non mi è per niente di aiuto, e sento chiaramente che il barista pensa, dandomi il permesso di usufruire del suo bagno: «Se è per un poco di acqua, si può fare, ma per il resto,.....non funziona bene lo scarico, non voglio poi dover pulire la merda degli altri».
Poi entro nel bagno, e quando lo trovo sporco, mi dico: - Non sono mica stato io! - Sì però lui non lo sa. Alzo gli occhi e c'è un cartello precisissimo, chiaro e scritto a carateri grandi, che mostra l'autorevolezza di un comandamento: “LASCIATE IL GABINETTO COME VORRESTE TROVARLO” -. Ho appena fatto pipi, e avverto che è poca, perchè la prostata si comporta così, sembra che stia con tutti tranne che col suo titolare. Lo so, non perché io sia un genio, ma perché mi é successo molte altre volte, che se non faccio con calma non ci riesco, essere veloce mi é impossibile, perché il tempo che determina la calma che a me serve per poter finire la pisciata, è più lungo del tempo di una normale defecazione, e fra pochissimo si ripresenterà il problema. Inoltre, quando per la premura ne faccio poca, subisco il tremendo ricatto del rumore anche di un semplice versamento di un bicchiere di acqua, e non parliamo di un rubinetto lasciato aperto. Questi liquidi che cadono, gorgogliano, fanno un sciacquio che, se non ho operato con calma, mi piscio subito sopra. Per fortuna il vecchio e perfido Rinaldo non deveva essere a conoscenza di questo fatto, perché altrimenti, invece di pulire o fingere di cercare qualcosa, avrebbe colto al volo l’occasione per simulare l' esigenza, aprendo il rubinetto e lasciandolo scorrere rumorosamente, di vedere come cadeva l' acqua, per vedere l' imbarazzo di quel bisognoso di bagno.
Ecco che cerco di non pensare a quello che ha sicuramente pensato il barista… “vada solo se piscia!” ed io mi sento in ritardo, ho la certezza che il barista possa pensare… “mi aveva detto che avrebbe solo pisciato…!”
Vorrei portare una prova, ma quale? Non siamo mica fra gentiluomini che basta la parola! Un barista giovane non sa mica cosa è la prostata; mi rendo conto che questa società non è attrezzata, né tecnicamente né psicologicamente, per le pisciate dei vecchi. Troppo lente. Mi sembra di vedere nel piccolo cesso, quel signore che tanto ci aveva fatto divertire quarant' anni fa, e che in modo educato mi dica: «Guardi che pisciare con la prostata è un casino, quando esce tutti si crederanno che ha fatto una cagata esagerata. Non se la prenda». Ci mancano anche i sogni da sveglio…! Preferirei essere un cane, anche senza paletta.
Sono agitato, vorrei uscire e pagare da bere a tutti, più un sospeso come fanno a Napoli, ma quando il barista mi dice: «Tutto a posto?» e per un attimo si distrae, in quel momento per me la mia presenza li é insopportabile. Ora il barista sta dando un resto impegnativo; è il momento: ringrazio e scappo, e non consumo come avrei voluto, stando attento a non travolgere nessuno, perché ho una gran voglia di sparire.
Piano piano ti accorgi che per andare in certi punti della tua citta, il percorso che scegli, è già stato scelto dalla tua prostata, sai perfettamente dove sono ubicati gli ultimi vecchi e genorosi vespasiani, dove i bar amici della tua prostata, dove gli eventuali angoli che in caso di bisogno ti fanno sentire un po cane ma ti risolvono il problema; questa involontaria attenzione ti permette di evitare quegli imbarazzi che gia conoscevi quranta anni fa, ma mai potevi immaginare che si sarebbero presentati in modo così imbarazzante.
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Marco Grasso

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